Considerando i tassi di inflazione, cosa conviene realmente? Il TFR, al momento, guadagna punti. Ma sarà sempre così?
L’incidenza dell’inflazione attuale è in grado di determinare il più alto gap tra disponibilità economica e capacità di spesa degli ultimi decenni. Un dato variabile ma, in linea generale, confermato anche dalle più recenti dichiarazioni Isee.
L’indice nazionale dei prezzi al consumo, reso noto dall’Istat il mese scorso, è stato come ogni anno un elemento fondamentale per determinare non solo la reale potenzialità finanziaria delle famiglie italiane ma anche la rivalutazione annua dei crediti di lavoro, oltre che del Trattamento di Fine rapporto (TFR). Il riferimento, chiaramente, è alla mensilità di dicembre. E, come da aspettative, il ritocco sull’importo generato dalle somme accantonate durante la propria carriera lavorativa. Cifra che assume un’importanza decisamente maggiore in questa fase, nonostante qualche timido segnale di distensione sul piano del deficit tra prezzi di consumo e capacità di spesa. Anche perché, la rivalutazione ha fatto segnare uno degli incrementi maggiori dagli anni Novanta a oggi, toccando quota 9,97456. Il che, se da un lato è un segnale positivo, dall’altro è indice di un’inflazione ancora preponderante, che risente degli strascichi del 2022.
L’indice di rivalutazione contribuisce a determinare, oltre al valore reale del TFR al dato momento, anche la discrepanza (eventuale) tra questo e l’alternativa principe, quella dei Fondi pensione. La scelta fra soldi lasciati sul Trattamento di Fine rapporto o il deposito su un Fondo chiama in causa direttamente il lavoratore, il quale dovrà tuttavia valutare la reale convenienza dell’uno piuttosto che dell’altro. La rivalutazione delle somme potrebbe fugare qualche dubbio, anche se in riferimento a un determinato periodo piuttosto che sul lungo termine. In questo senso, secondo quanto previsto dall’articolo 2120 del Codice Civile, i nuovi adeguamenti poggeranno su una base fissa pari all’1,5%, oltre che su una quota variabile pari al 75% dell’aumento dei prezzi stimato dall’Istat. Tale indice ottenuto, sarà applicato all’ammontare del TFR risultante al 31 dicembre 2021, in quanto gli ultimi 12 mesi saranno esclusi dalla rivalutazione.
La rivalutazione del TFR, solitamente, grava sui datori di lavoro titolari di aziende con meno di 50 dipendenti. L’unica eccezione riguarda l’eventuale trasferimento del Trattamento di Fine rapporto ai fondi complementari. Va ricordato che tale scenario potrebbe verificarsi solo nel caso in cui il dipendente optasse deliberatamente per la soluzione oppure non abbia operato alcuna scelta. In questa seconda circostanza, il trasferimento del TFR ai fondi di previdenza complementare avverrà in automatico. Si tratta di una differenza fondamentale, in quanto la conversione degli importi in contributi previdenziali al Fondo di tesoreria saranno a carico dell’Inps. Al datore di lavoro sarà invece demandata la responsabilità degli oneri amministrativi (ad esempio il versamento dell’imposta sostitutiva a carico del dipendente). Gli importi saranno poi recuperati dal debito contributivo maturato dall’Inps. Questo, però, di per sé spiega solo in parte quale sia la convenienza reale per il dipendente nella scelta tra i Fondi pensione e il Trattamento di Fine rapporto.
Più informazioni deriverebbero dal confronto tra i rendimenti garantiti dai due strumenti. Al momento, come detto, il TFR garantisce una rivalutazione più elevata rispetto agli anni precedenti a causa dell’alto tasso di inflazione. Una condizione che, come abbiamo visto, rappresenta un adeguamento rispetto alle attuali capacità finanziarie dei contribuenti. Per quanto riguarda i Fondi pensioni, invece, la convenienza varia a seconda della gestione finanziaria. E, in questo caso, l’inflazione rappresenta un elemento destabilizzante piuttosto che una certezza di rivalutazione. Ad esempio, se per il TFR il ritocco è stato piuttosto evidente (10%), per i Fondi le cose stanno diversamente. In riferimento all’anno 2022, anziché lievitare, la rivalutazione si è sgonfiata, perdendo terreno nella stessa misura (10%) in cui il rendimento del Trattamento è aumentato. Anzi, tra i fondi pensione negoziali, quelli aperti hanno perso il 12,2%. Praticamente gli stessi numeri per i piani individuali pensionistici, scesi del 12,4%, con perdite complessive che hanno sfiorato gli 11 miliardi in appena dodici mesi. Il che presuppone un evidente rischio per i depositi effettuati, a causa dell’incremento dei costi di sostenimento. Scenario che, ora come ora, rende il denaro lasciato in azienda maggiormente al riparo. Almeno per adesso.
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